

Quando avevo iniziato a spiegargli come avrebbe potuto salvare l’azienda di famiglia senza svendere uno dei due stabilimenti, era rimasto perplesso, perché non gli avevano mai fatto vedere le cose in quella maniera. Era convinto di dover affrontare il fallimento.
Sembrava incredulo che quell’incubo potesse finire grazie all’aiuto di un ragazzo che aveva più o meno l’età di suo figlio maggiore.
Non ci dormiva da mesi e quella soluzione era “troppo bella per essere vera”.
Era un membro rispettabile della sua comunità, un imprenditore conosciuto nella sua zona che partecipava attivamente alla vita politica, sociale e culturale della sua provincia.
Aveva avuto incarichi importanti nel Consiglio Comunale, una poltrona nella sezione provinciale della Confindustria locale e un posto nel Comitato Direttivo della banca territoriale.
Non poteva fare brutte figure.
Non voleva che il nome della sua famiglia venisse sporcato. Avrebbe fatto di tutto per evitarlo.
Poteva salvare l’azienda, trovando le risorse finanziarie per portarla avanti nelle pieghe dei suoi bilanci. I soldi di cui aveva bisogno erano lì, bastava solo riuscirli a sfruttare.
Ma doveva fidarsi e rinunciare all’approccio che aveva tenuto fino a quel momento.
Non era per niente facile.
Doveva smetterla di aspettare che le cose cambiassero e che le banche “tornassero a fare le banche”, come il suo anziano commercialista gli ripeteva da anni.
Non doveva seguire le lusinghe di quel sedicente avvocato d’affari, interessato più a trovare il modo per liquidare il suo patrimonio che non a salvare l’attività alla quale aveva dedicato tutta la sua vita.
Un’azienda non si salva facendola a pezzi, cercando un compratore a cui svendere una parte dei beni di proprietà. Quelli sono solo palliativi per prolungare l’agonia prima di vederla chiudere.
Doveva smettere di usare il denaro per tappare i buchi, assumere uno bravo davvero nella gestione delle aziende in crisi, e dedicarsi anima e corpo nel completare la sperimentazione di quel composto innovativo che gli avrebbe permesso di realizzare manufatti migliori ad un costo più basso.
In questo modo avrebbe recuperato margini e quote di mercato.
I soldi che avanzavano dalla ricerca e sviluppo, dovevano essere impiegati nella commercializzazione di questa nuova linea di prodotti che gli avrebbe permesso di venire fuori dalla crisi dell’edilizia.
Produceva semilavorati in cemento armato, aveva due stabilimenti e aveva resistito il più possibile mentre la crisi falcidiava l’intero comparto. Ma non aveva più risorse personali da buttare in azienda per andare avanti e doveva sfruttare altri canali per uscire a testa alta da quello stallo.
Come se non bastasse, la pioggia era caduta sul bagnato.
A causa di un problema di un’altra avventura imprenditoriale alla quale aveva partecipato, aveva avuto una segnalazione di sofferenza bancaria che aveva spinto le banche, anche quelle amiche, a chiudere i rubinetti del credito.
Ma c’era una via d’uscita.
Come evitare il fallimento “chiedendo aiuto” ai tuoi fornitori
Il salvataggio di un’azienda deve prevedere il coinvolgimento di tutte le parti in causa. Solo così si evitano i fallimenti.
Per arrivarci a volte, bisogna forzare la mano.
Le trattative con i fornitori si potevano gestire in modo professionale, senza arrecare danni agli imprenditori che conosceva da anni e senza nemmeno richiedere chissà quale sconto particolare.
Dovevano solo accettare di attendere qualche anno per ricevere quello che gli spettava e potevamo addirittura riconoscere loro degli interessi per premiarli della collaborazione e del supporto.
Se l’unica alternativa, quella di vendere lo stabilimento, fosse fallita come era prevedibile dato il momento storico, l’azienda avrebbe dovuto portare i libri in tribunale e i fornitori sarebbero rimasti con un pugno di mosche in mano.
D’altronde si sa che nelle procedure fallimentari i fornitori dell’azienda aspettano anni per ricevere il pagamento delle briciole dei loro crediti.
Il rischio di ritrovarsi con una percentuale di soddisfazione che varia dal 3% al 13% circa del valore nominale dei crediti, valeva bene la pena di pazientare qualche anno.
Anche i dipendenti possono aiutarti ad evitare il fallimento, se sai come chiederglielo
La maggior parte dei dipendenti era in azienda da molti anni, alcuni avevano superato la cinquantina, quasi tutti erano ben oltre i quaranta.
Operai specializzati in un settore decimato dalla crisi, che non avrebbero trovato un’altra occupazione se non per miracolo.
Conveniva a tutti rinunciare a qualche ora di straordinario, trovare un accordo per il pagamento degli stipendi arretrati ed andare avanti a lavorare sfruttando gli ammortizzatori sociali.
In caso di fallimento, il loro credito sarebbe stato privilegiato ma avrebbero aspettato molti mesi prima di vedere anche un solo centesimo.
Certo, avrebbero ottenuto il pagamento del TFR e degli ultimi tre stipendi (il che li rendeva molto più pericolosi delle banche) ma poi sarebbero rimasti senza lavoro.
Avrebbero avuto accesso agli ammortizzatori sociale previsti in questi casi, ma cosa avrebbero fatto dopo?
Un paio di anni in disoccupazione non sarebbero bastati a farli arrivare all’età per la pensione e avrebbero dovuto arrangiarsi con qualche lavoretto abusivo, per tirare a campare e portare a casa il pane.
Cosa ci guadagna il Fisco se fai di tutto per evitare il fallimento
Lo Stato se la sarebbe cavata meglio.
Erano anni che l’azienda non aveva i margini per pagare tutto quello che serviva a farla andare avanti.
Così, quando aveva dovuto scegliere se pagare le tasse oppure i fornitori e i dipendenti, aveva scelto di favorire questi ultimi, trattenendo anche l’IVA che avrebbe dovuto versare.
Molti al suo posto hanno fatto questa scelta e raramente il fisco si è accanito contro di loro. I funzionari dell’AdE non corrono quasi mai a presentare per primi una istanza di fallimento.
Basta la buona fede a rendere il braccio armato dello Stato molto più clemente nei confronti degli imprenditori in difficoltà.
Il piano che gli avevo presento prevedeva un pagamento dilazionato, da posticipare il più possibile.
Ricorrendo alla massima dilazione legalmente ottenibile, organizzando in maniera efficiente i pagamenti da fare e le cartelle esattoriali che sarebbero arrivate, se l’azienda si fosse ripresa come sperato avrebbe potuto sostenere l’uscita finanziaria dovuta al carico fiscale.
D’altronde, pagare casualmente solo quello che si riusciva a pagare, tralasciando le somme più grosse, non era poi una mossa strategica così vincente.
Dal punto di vista tecnico, in caso di fallimento, non sarebbe cambiato poi molto.
Il Fisco avrebbe fatto man bassa della carcassa della sua azienda.
Dei soldi che si sarebbero ricavati grazie alla vendita dei beni la maggior parte sarebbe finita nelle case dello Stato, fatta eccezione per i crediti vantati dai dipendenti e quelli coperti dalle garanzie ipotecarie.
La legge parla chiaro in merito. C’é una graduatoria molto rigida da rispettare e il Fisco é in cima alla lista.
Nemmeno lo Stato aveva tanto da guadagnare dal fallimento, però.
Tra le tasse che non avrebbe più potuto incassare a causa della chiusura dell’azienda e quello che avrebbe dovuto sborsare per mantenere i neo-disoccupati, sarebbe stato un gioco a perdere.
Meglio aspettare e incassare tutto, con gli interessi previsti dalla legge.
Come coinvolgere le banche nel processo di risanamento per evitare il fallimento, anche se sembrano contrarie all’idea di darti una mano
La trattativa con le banche sarebbe stata difficile, lunga e faticosa.
Ma la strada del risanamento aziendale non è mai facile e gli istituti di credito avrebbero dovuto fare la loro parte per evitare una drammatica chiusura.
Solo che ancora non lo sapevano.
La maggior parte degli imprenditori sbaglia completamente l’approccio al sistema bancario in caso di crisi aziendale.
Ci si aspetta che le banche continuino a finanziare l’azienda in crisi, nonostante le segnalazioni negative. Perché in qualche modo credono sia dovere della banca aiutarli.
Purtroppo non è così.
Le banche non sono tenute ad “aiutarti” nei momenti di difficoltà aziendale, anzi.
Sono i creditori più informati dello stato di salute della tua azienda e quelli che per primi tirano i remi in barca in caso di crisi. Sarà ingiusto, sarà sbagliato, sarà indegno di un Paese civile… aggiungi tu il resto e indignati.
Ma è così e devi farci i conti.
Quindi non si può coinvolgerle nel risanamento di un’azienda in crisi?
Tutt’altro.
Ma bisogna forzare la mano, nel modo giusto, ovviamente.
Alcune banche avrebbero rinunciato ad una parte del loro credito, altre, quelle più garantite, avrebbero ceduto solo sulle tempistiche per il rimborso.
Ma non si poteva mai dire.
L’esito di queste trattative é legato a decine di variabili differenti, alcune delle quali cambiano in base alle politiche di credito della banca e delle società che garantiscono le esposizioni.
Il risultato non é mai scontato.
La situazione era tale per cui nemmeno le banche avrebbero avuto un risultato migliore dal fallimento.
Il credito sarebbe stato bloccato per anni, l’esito della procedura incerto.
Avrebbero potuto dirottare la loro aggressione sulle garanzie personali, ma sarebbero passati anni prima di ottenere un risultato accettabile.
E nel frattempo i crediti sarebbero rimasti lì a marcire ed a generare costi di gestione, di patrimonio, di segnalazione, di imposte non recuperate… oltre al rischio di un giudizio che avrebbe portato inevitabilmente ad una revisione dei conti e dei costi applicati alle linee di credito.
C’erano gli strumenti per far leva anche sul comitato credito più aggressivo ed intransigente. Nonostante gli errori fatti nella concessione delle garanzie personali, c’era margine per intervenire.
Nessuna banca avrebbe guadagnato di più in caso di un fallimento e questo sarebbe stato uno degli angoli di attacco da sfruttare per negoziare condizioni di rientro sostenibili.
Dopo aver sfruttato il credito ben oltre le soglie, ovviamente.
Altrimenti l’azienda come sarebbe andata avanti?
Come (e quando) puoi evitare il fallimento
Perché il nocciolo della questione, la buccia di banana sulla quale scivola ogni ragionamento sulla crisi aziendale è esattamente questo.
Fino a dove è giusto spingersi per salvare l’azienda?
Secondo me tutte le aziende che hanno clienti che comprano loro beni e servizi possono essere salvate. Quelle che hanno interrotto l’attività, solo quelle, devono essere chiuse e messe in liquidazione per pagare i debiti.
Per quelle attive, la soluzione può essere trovata.
Quanto questa soluzione si priva di strascichi dipende dal momento in cui si interviene sulla crisi. Prima si inizia, meno danni si subiscono.
Se l’azienda trova il modo per andare avanti e rilanciarsi, tutti i soggetti coinvolti ne riescono a trarre beneficio, in un modo o nell’altro. Anche se, apparentemente, si sta chiedendo loro uno sforzo particolare, in realtà si agisce per il loro esclusivo interesse.
Mollare tutto, arrendersi, tirare i remi in barca dichiarando fallimento o, peggio ancora, chiudere e riaprire sotto un altro nome, sperando che nessuno se ne accorga, equivale a scaricare il peso del debito della tua azienda sui fornitori, sui dipendenti, sulle banche e perfino sullo Stato.
Si lo so che dello Stato te ne frega poco, ma se ci pensi bene lo Stato sono anche i tuoi figli, che pagheranno un giorno tasse più alte per coprire il buco nero del debito pubblico.
E poi vuoi mettere la soddisfazione personale di aver raschiato il fondo del barile ed essere tornati a galla, più forti di prima?
Ovviamente la discriminante della tecnica sta nelle intenzioni.
Se l’obiettivo è quello di rendere l’azienda finanziariamente più forte e, in caso di crisi, di salvarla ripagando i propri debiti nei limiti del possibile, allora ogni iniziativa è sfruttabile.
Per mia scelta, ad esempio, non lavoro mai con imprenditori che vogliono utilizzare la mia specializzazione e le competenze del mio staff “per risparmiare” sui debiti da pagare.
Il risparmio è sicuramente un risultato essenziale del mio lavoro, ma si incastra in un discorso più ampio fatto di investimenti, sopravvenienze, risanamento dei conti e rilancio industriale.
Sfruttare le leve disponibili per creare liquidità e finanziare l’azienda ha quindi un’utilità che va oltre il salvataggio del tuo fondoschiena.
Se la tua azienda va avanti e cresce, tutte le parti che ti hanno aiutato a finanziarne lo sviluppo, anche se involontariamente, ne otterranno un beneficio.
Quindi l’unico limite è la legge.
Tutto quello che gli avevo proposto e che hai letto fino ad ora non viola nessuna norma se applicato correttamente. Nemmeno le tecniche per sfruttare a tuo vantaggio la normativa fiscale ti portano a commettere qualche violazione.
Viene da se che, per applicare l’intero metodo, hai bisogno del supporto di professionisti competenti che siano in grado di guidarti nelle scelte e di dirti quello che rischi seguendo una strada anziché l’altra.
Esperti che conoscano il confine tra ciò che e lecito e quello che invece non è permesso dalla legge e potrebbe farti rischiare condanne penali, come la sottrazione dei beni aziendali tramite un maldestro contratto di affitto di azienda, ad esempio.
Tutto funziona se riesci a mantenerlo in equilibrio e se lo adatti alle specifiche caratteristiche della tua attività.
Ecco perché solo con una consulenza preliminare è possibile capire se al tuo caso è possibile applicare il Metodo Di Domenico Debiti per evitare il fallimento e trovare le risorse necessarie a finanziare i progetti grazie ai quali poter rilanciare la tua azienda.
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