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Una delle prime cose che gli imprenditori con problemi di liquidità decidono di fare quando il peso delle difficoltà finanziarie dell’azienda inizia a farsi sentire, è quella di rivolgersi al commercialista o al ragioniere di fiducia, perché li risolvano o quanto meno gli indichino la strada da percorrere per evitare la crisi aziendale.
Una scelta più che comprensibile, direi.
Sono queste le figure che si occupano (o dovrebbero occuparsi) dei “numeri” aziendali di una PMI, che non ha le risorse né le dimensioni per dotarsi di un direttore finanziario.
Il controllo del denaro che entra e esce dall’azienda resta nelle mani dell’imprenditore, che dispone i pagamenti e decide i tempi di incasso delle fatture, ma l’equilibrio economico dell’azienda è lasciato, spesso senza mandato ufficiale, nelle mani del ragioniere e del commercialista.
Questi professionisti sono chiamati a ricoprire il ruolo del direttore finanziario ad interim, anche se spesso non lo sanno nemmeno, e si limitano a mantenere in ordine la contabilità, a calcolare le tasse da pagare ed a fare in modo che non ci siano problemi con gli adempimenti burocratici.
In molti casi questa soluzione organizzative non è sufficiente a garantirti di controllare l’azienda attraverso i numeri e questo ti espone al rischio di dover affrontare una crisi aziendale.
Ma spesso, più che l’assenza del controllo di gestione, sono i suggerimenti sbagliati ad aggravare una situazione difficile.
Il 97% degli imprenditori che ho affiancato nei miei 15 anni di esperienza, prima di contattarmi, è è passato dai consigli del proprio professionista di fiducia, prima di rendersi conto a proprie spese che stava solo passando dalla padella alla brace.
Praticamente tutti, perché se i conti non quadrano, è dal commercialista che si va per trovare una soluzione.
Questo perché si sovrappone il concetto di contabilità a quello di gestione finanziaria aziendale, credendo che le conoscenze necessarie al disbrigo degli adempimenti previsti dalla legge, in termini contabili e fiscali, siano le stesse necessarie a controllare la struttura finanziaria dell’azienda e i risultati delle strategie implementate dall’imprenditore.
“Lui ha tutte le carte in mano, sa meglio di me quali sono le spese e i guadagni di ogni mese, mi avvertirà se qualcosa non torna e saprà trovare per tempo una soluzione in caso di problemi””.
Questa è solo una delle convinzioni più comuni tra i miei assistiti.
Ed è una convinzione sbagliata, nella maggior parte dei casi, perché il lavoro da fare per la gestione della crisi aziendale non è nemmeno paragonabile a quello che ogni giorno il tuo commercialista è chiamato a fare.
Solo che non te lo dice, perché non vuole perderti come cliente, è questo porta ad una gestione della situazione di crisi molto “approssimativa”, a voler essere buoni.
E spesso questo si traduce in una crisi economica e finanziaria senza rimedio, se non quello delle procedure concorsuali.
Il crisis management non si improvvisa!!!
Non si rischia di mandare un’azienda in crisi testando a spese di imprenditori inconsapevoli le proprie teorie o peggio, per guadagnare una misera provvigione per la segnalazione del cliente ad un consulente sconosciuto che non è in grado di dimostrare i propri risultati nella gestione delle crisi aziendali.
Nel corso degli anni ho ascoltato, analizzato e smontato ogni genere di strategia strampalata portata avanti dietro indicazione del professionista di fiducia, o almeno, quegli imprenditori mi hanno detto che era così.
Tattiche non solo inutili, ma anche pericolose, che hanno ridotto diversi imprenditori sull’orlo della disperazione.
Molti commercialisti, davanti a una crisi finanziaria aziendale, sfornano soluzioni fantasiose, proponendo azioni spesso inefficaci delle quali non conoscono tutti i risvolti, a volte ai limiti della legalità, che espongono gli imprenditori a conseguenze davvero drammatiche, peggiorando ulteriormente le condizioni finanziarie in cui versa la loro impresa o, peggio ancora, infierendo il colpo di grazia.
Affitti d’azienda a società intestate a parenti e amici, trasferimento della società nei paesi dell’est, intestazioni fittizie…
Mi è capitato veramente di scontrarmi con ogni genere di alternativa, più o meno legale.
Per fortuna, molte di queste situazioni di crisi aziendale, quando l’imprenditore si rivolge a noi, sono ancora risolvibili.
Complesse, ma risolvibili.
Altre volte, purtroppo, la terapia adottata prima di noi è stata talmente devastante da risultare letale.
In alcuni altri casi, invece, non riusciamo a convincere l’imprenditore della bontà della soluzione proposta secondo il Metodo Di Domenico per la gestione finanziaria delle PMI, perché è troppo tardi per fargli cambiare idea, più che per risolvere il problema.
Funziona così.
L’imprenditore ci chiama incuriosito, il processo di diagnosi va avanti senza intoppi, troviamo un accordo economico soddisfacente per tutti, poi qualche cosa si inceppa.
Il coraggio necessario a lanciarsi in qualcosa che non si conosce appieno, magari anche distante da casa, viene a mancare perché ritorna in mente l’ultima scottante esperienza con l’ultimo consulente profumatamente pagato, che si è approfittato della fiducia concessa per farsi pagare un pessimo servizio.
L’imprenditore è rimasto così traumatizzato che non riesce a fidarsi più di nessuno, non riesce a distinguere il bene dal male, e preferisce fare da solo o non fare niente, perché almeno è gratis.
Poco importa se di fronte si trova, come nel nostro caso, il rappresentante di una società specializzata nella risoluzione di problemi di liquidità aziendale, lavora attraverso procedure chiare, trasparenti e collaudate.
A nulla valgono le condizioni messe nero su bianco e le garanzie offerte per ridurre la paura di sbagliare ancora e per fargli capire che, questa volta, almeno questa volta, sarà diverso.
La paura di sbagliare ancora una volta lo paralizza, resta invischiato nei propri errori.
Questo è successo a Giovanni, titolare di una ditta di infissi, che in dieci anni ha visto crollare sotto i suoi occhi il frutto dei suoi sacrifici e dei successi raggiunti da due generazioni di imprenditori.
Avremmo potuto fare molto per lui, ma era rimasto troppo scottato dalle soluzioni proposte dal suo commercialista di fiducia, per riuscire a fidarsi ancora di qualcuno, così ha scelto di proseguire per la sua strada senza il nostro supporto.
E non è stata una bella idea.
Ma prima di parlarti di quello che gli è capitato alla fine, voglio comunque raccontarti la sua storia, perché ti porti a riflettere sulla soluzione che deciderai di adottare e, nel caso ti propongano soluzioni simili, tu possa evitare di commettere i suoi stessi errori.
Come un’azienda che lavora a pieno regime, ma non adotta un sistema di gestione finanziaria efficace, può indebitarsi fino allo scoppio di una crisi aziendale
La ditta di Giovanni aveva una lunga storia alle spalle.
Nata negli anni Sessanta da un’idea e dall’intraprendenza del padre, era stata apprezzata dai primi clienti e aveva seguito un percorso di espansione costante, dai primi lavori artigianali in un piccolo borgo del Centro Italia, fino ai primi dipendenti e al capannone di proprietà, costruito negli anni Settanta.
In appena dieci anni di attività l’azienda di famiglia era cresciuta, conquistando quote di mercato sempre più importanti, realizzando lavori in altre zone d’Italia, acquistando macchinari sempre più nuovi e moderni, riorganizzando la struttura aziendale e assumendo sempre più persone.
Giovanni li ricorda come gli anni d’oro della sua vita.
Aveva seguito le orme di suo padre sin da bambino, quando lo aiutava come “garzone”, nel piccolo laboratorio artigianale.
“C’è tutta la mia vita lì dentro, ho mosso i miei primi passi da imprenditore proprio tra i corridoi della nostra impresa, tra scaglie di legno e profumo di castagni. I nostri prodotti di punta erano realizzati proprio con legno di castagno, prima di passare al più moderno e leggero alluminio. È stata la grande scommessa di mio padre, quella che gli ha permesso di avere successo e portare l’azienda ad affermarsi come punto di riferimento nel settore”.
All’epoca piovevano commesse da quasi tutta Italia, principalmente da cantieri del Nord, ma anche da molte province del Centro e del Sud Italia.
Nemmeno sapevano come si scriveva “crisi aziendale”.
Negli anni più floridi la ditta era arrivata ad impiegare più di 100 dipendenti, fatturava circa 20 miliardi delle vecchie lire (10 milioni di euro, più o meno) e non temeva la concorrenza.
Il modello di business adottato negli anni Settanta funzionava e ha continuato a produrre i suoi risultati per decenni, fino ai primi grandi cambiamenti di mercato.
L’azienda si era evoluta molto dal punto di vista produttivo.
Erano al passo con i tempi per le tecnologie utilizzate e i prodotti commercializzati, ma l’assenza di un’adeguata rete vendita, di una struttura finanziaria solida e di un sistema di controllo di gestione strategico, aveva causato un lento e inevitabile declino, fino ai primi scossoni dovuti alla crisi del mercato di sbocco.
Il rallentamento del settore edile, le grandi crisi finanziarie e la crescente difficoltà a ottenere buoni margini sulle vendite avevano avuto ripercussioni nel comparto della produzione di infissi.
Le commesse erano diminuite col tempo, i clienti ridotti al lumicino e, spesso, non pagavano il dovuto, fallendo.
Il fatturato dell’azienda di Giovanni è sceso costantemente negli anni, fino al tracollo del 2011, quando aveva subito un calo del 60% che aveva segnato l’inizio di quello stato di crisi aziendale dal quale non era mai più riuscito ad uscire.
Il fallimento di un grosso cliente era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, portando Giovanni a perdere l’investimento fatto per realizzare un ordine di quasi 400 mila euro, rimasto bloccato in magazzino.
Quando ci ha contattati la situazione si era complicata molto più di quanto non lo fosse nel 2011, periodo in cui il problema sembrava essere “solo” il calo di fatturato e l’insoluto rimasto sul groppone.
Semplicemente ascoltando la sua storia, avevamo fatto una diagnosi preliminare dalla quale veniva fuori una struttura aziendale e finanziaria che faceva acqua da tutte le parti.
Il capitale si era ridotto a poco più di 80 mila euro a causa delle perdite accumulate negli anni, molti dei soldi investiti nel tempo erano stati bruciati nei momenti peggiori della crisi.
Su suggerimento del suo commercialista, Giovanni, aveva deciso di sacrificare 500 mila euro del suo patrimonio personale per tenere in piedi l’azienda e permetterle di continuare a lavorare, nonostante il periodo difficile.
“Non potevo accettare di vedere spegnersi la creatura che ha fatto crescere mio padre. L’ha tirata su come un figlio, impiegando molta gente del posto. Con ognuno di loro abbiamo costruito un rapporto personale, prima ancora che professionale. Sento sulle mie spalle tutta la responsabilità delle loro vite e delle loro famiglie. Non posso permettere che le cose vadano male”.
Tra di loro Mario, il ragioniere entrato in azienda negli anni ‘80 e rimasto negli uffici aziendali, per dare una mano a Giovanni nelle questioni amministrative, anche dopo essere andato in pensione.
Lui e pochi altri impiegati erano rimasti fedeli all’imprenditore nella ditta di infissi.
Tutti gli altri nel tempo erano andati via.
Consapevoli della situazione difficile in cui versava l’azienda avevano lasciato la nave che affondava uno dopo l’altro, ma la vera “grande fuga” c’era stata nel 2014, quando Giovanni era talmente stretto con la liquidità, a causa del fallimento di quel grosso cliente, che aveva ritardato il pagamento degli stipendi ai suoi dipendenti di sei mesi.
Ben 25 dipendenti avevano tagliato la corda, avevano bisogno dello stipendio per vivere, e gli avevano chiesto di saldare 187 mila euro di debiti per stipendi arretrati, contributi e TFR.
Dopo la crisi finanziaria del 2014, la sua ditta era arrivata a impiegare solo 2 operai alla produzione, 1 magazziniere part-time e il ragioniere in pensione.
Le squadre per il montaggio erano tutte esterne.
Non esisteva una rete commerciale, né addetti alla vendita, solo uno show-room espositivo e i buoni contatti con alcune aziende edili che gli passavano i clienti.
La situazione peggiore, però, riguardava fisco e banche.
Tra mutui e scoperti, aveva accumulato 1,3 milioni di debito con 4 banche diverse.
Decreti ingiuntivi, conti in sofferenza e bloccati, fideiussioni firmate con esposizione del patrimonio personale rimanente e, infine, ipoteche sui due capannoni aziendali, di cui uno messo all’asta e non ancora venduto.
Solo una delle quattro banche, che per decine di anni avevano incassato gli interessi dall’azienda, gli aveva permesso di continuare a lavorare fino al 2019, quando l’ennesimo insoluto su una fattura emessa ad un cliente aveva contribuito a mettere in ginocchio un imprenditore che arrancava ma che si reggeva ancora in piedi.
La ciliegina sulla torta era stata messa quando, dopo l’ennesima rata non pagata sui mutui già irregolari, anche quella banca gli aveva bloccato i conti anticipi, oltre a notificargli la decadenza dal beneficio del termine sui mutui.
“[…] Essendo divenuti insolventi, Vi dichiariamo decaduti dal beneficio del termine ex art. 1186 C.C. e vi richiediamo pertanto il pagamento immediato dell’importo complessivo di Euro 374.311,71 oltre accessori e interessi al tasso legale, dalla data di scadenza delle obbligazioni sino al saldo […]”
Queste le parole contenute nella lettera ricevuta dalla banca, proprio negli ultimi mesi del 2019.
Con il fisco la situazione era tutt’altro che rosea.
Circa 270 mila euro di cartelle esattoriali da saldare e altrettanti F24 non pagati.
E i fornitori, in tutto ciò?
Non erano rimasti certo a guardare la nave affondare.
Nessuno aveva ancora avviato alcuna azione legale nei confronti dell’azienda per i debiti accumulati, ma buona parte dei 250mila euro che ancora doveva loro erano coperti da assegni a garanzia.
Giovanni contava di riuscire a restituirne 100 mila, spostando un po’ di liquidità da altre aree, ma i fornitori non lo preoccupavano. Era convinto di essere in buoni rapporti con loro e poter rinegoziare i termini di pagamento.
In realtà si trattava solo di una calma apparente.
I fornitori possono essere i più pericolosi “aguzzini” quando ci sono debiti importanti di mezzo e fiutano le difficoltà finanziarie di una loro azienda cliente.
Si muovono come schegge impazzite, non seguono procedure standardizzate e prevedibili e possono contribuire a bloccare fino all’ultimo centesimo dell’ultimo conto corrente disponibile.
Situazione complicata?
Non ancora abbastanza.
Beh, non ho ancora menzionato il contenzioso con l’ultimo fornitore di Giovanni, quello che gli ha causato, con i suoi “preziosi consigli”, questi e molti altri guai ben più gravi.
Si trattava del suo commercialista di fiducia, suo compagno di banco alle superiori e di scorribande in gioventù.
Lo stesso a cui Giovanni si era rivolto quando le acque avevano iniziato ad agitarsi e su cui aveva riposto la sua più totale fiducia, investendo i pochi soldi che gli rimanevano in quella che doveva essere un’operazione di “messa in sicurezza” della sua azienda.
Di cosa si tratta?
Te lo spiego subito.
I consigli “furbi” del commercialista che hanno fatto scoppiare la crisi aziendale e rovinato Giovanni
“Luigi, mi conosci, non voglio fare il passo più lungo della gamba, non lavoro più come prima, ho paura di non riuscire più a restituirli tutti questi soldi alla banca”
Questo gli aveva detto quando gli aveva proposto di consolidare il debito con le banche.
“Giova, vai tranquillo, non te lo avrei consigliato. Prendi quei soldi, ti faranno comodo. Non andrà sempre male, il mercato si sbloccherà e riprenderai a lavorare come prima. Ora quei soldi ti servono per aumentare le scorte, così ti porti avanti.
Man mano che smaltisci la merce paghi le rate del mutuo e benedirai questi nuovi investimenti. Fidati. Non mi avresti chiamato se avessi saputo che ti avrei dato cattivi consigli. E se le cose si mettono male, me la vedo io. Per te questo ed altro”.
Fidandosi del consiglio del suo commercialista, qualche anno prima, quando i problemi di liquidità non erano ancora degenerati nella crisi finanziaria, aveva spremuto altro denaro alle banche, esponendo il suo patrimonio con le fideiussioni e ipotecando i capannoni per aumentare la liquidità necessaria a rifornire il magazzino.
Quando la situazione finanziaria si era aggravata, perché alcune delle commesse su cui contavano non erano entrate e le rate dei mutui diventavano sempre più pesanti da sostenere, tutto ciò che gli ha proposto Luigi, il suo amico commercialista, erano state un paio di preanalisi per anatocismo e usura.
Non è strano che questo genere di causa nasca dal suggerimento del professionista di fiducia dell’imprenditore.
C’è stato un periodo che le vendeva chiunque e, ancora oggi, purtroppo, è ancora molto diffusa la pratica di fare valutazioni per anatocismo ai fini di una potenziale causa contro la banca, mirando al sogno di vedere annullato il debito gravante sull’imprenditore.
Come nella maggior parte dei casi, però, anche in questa circostanza si era trattato di un’operazione caduta nel vuoto, per l’assenza dei presupposti per iniziare una causa di questo tipo.
Alla fine Giovanni era stato condannato al pagamento delle spese per lite temeraria.
Il suo amico commercialista gli aveva proposto una nuova via di fuga, ai limiti della legalità.
“Allora, Giovanni, facciamo in questo modo. Con le banche è un casino, non riusciresti mai a saldare tutti i debiti, per come sei messo. Purtroppo, non potevamo prevedere tutto. Prendere quei soldi non è stata una cattiva idea. Semplicemente, la sorte si è accanita contro di te. Conosco una persona molto ingamba che può tirarti fuori definitivamente dai casini in cui sei finito con le banche e tutto il resto. Lui si chiama Simone, è titolare di una società che si occupa di comprare le aziende in difficoltà, permettendo loro di rimettersi in carreggiata e di pagare i debiti con molta calma.”
Giovanni era scettico, gli puzzava un po’ questo affare, tanto quanto quello che gli aveva proposto un altro mediatore incontrato in Bulgaria, che gli aveva promesso di risolvere tutto, a patto che trasferisse tutte le sue attività fuori dall’Italia e intestasse la società a loro.
“No, Giovanni, lascialo perdere. Quest’operazione è pulita, fidati, l’ho consigliata anche ad altri imprenditori. Simone è in gamba e la sua è una società seria, non te lo avrei presentato altrimenti.”
In poche parole, Giovanni, su consiglio del suo commercialista aveva conferito l’azienda in una nuova società, intestandola a una fiduciaria in nessun modo collegata alla sua azienda.
Si trattava di una società veicolo, completamente pulita e priva di debiti, che era poi stata ceduta a una società maltese che avrebbe pagato il prezzo dell’azienda conferita a rate.
Effettuato questo passaggio, suggellato da apposito atto notarile, Giovanni avrebbe ripreso il controllo operativo della società “veicolo” con un contratto di concessione d’uso che lo impegnava a versare una quota fissa mensile che la fiduciaria avrebbe utilizzato per pagare i debiti “a stralcio”, in teoria
Nel contratto era previsto che la società maltese avrebbe acquistato tutte le quote della società veicolo.
Il contratto di locazione sottoscritto prevedeva la concessione in utilizzo degli asset di proprietà dell’azienda per 84 mesi, con un canone di 9.000 Euro al mese.
In questo modo Giovanni avrebbe fornito alla società i soldi per pagare la metà del debito.
Un vero casino insomma.
Ma anche una soluzione parecchio allettante per un imprenditore che sperava di salvare l’azienda ereditata dal padre ed disposto a tutto pur di riuscirci
Anche a pagare in anticipo ed in contanti una commissione di gestione dell’operazione di 35.000 Euro.
Certo non erano pochi spiccioli per il titolare di un’azienda in grosse difficoltà finanziarie, ma sempre meglio di un debito di quasi un milione e mezzo di euro.
Ma il meglio deve ancora arrivare.
Il fatto che abbia utilizzato il condizionale nella descrizione dei dettagli contrattuali non è stato un caso.
Sì, perché dopo la formalizzazione dell’operazione di cessione del ramo d’azienda e una volta consegnata l’ultima tranche del pagamento in contanti della commissione al funzionario della società maltese, tutti i personaggi di questa storia si sono dileguati nel nulla, mentre il suo amico commercialista se n’é lavato le mani.
“Io vi ho solo messo in contatto, poi non mi hai fatto sapere più niente!”
Giovanni era rimasto con un pugno di mosche in mano, con una marea di debiti da pagare e senza soldi per onorarli e senza più avere la titolarità giuridica dell’azienda che aveva ereditato.
“Siamo stati truffati. Con me, c’erano altri 17 imprenditori nella mia stessa situazione e abbiamo tutti perso i soldi. Uno di loro si è anche suicidato. Io non so dove sbattere la testa ora. Mi sono vergognato a parlarne anche con la mia famiglia.
In dieci anni ho completamente mandato in fumo i sacrifici di mio padre e deluso tutti i collaboratori che mi hanno visto crescere, dandomi fiducia grazie al suo buon nome”.
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Vorrei tanto poter scrivere che quella appena raccontata è una storia di fantasia o dal lieto fine, ma purtroppo non lo è.
Ho ancora i contratti di questa strampalata operazione custoditi nel nostro archivio.
Giovanni è solo uno dei tanti imprenditori che finiscono truffati e sul lastrico a causa di consulenze sconsiderate e pericolose.
Quando ha bussato alla nostra porta, non ci siamo ritrovati davanti solo l’ennesimo imprenditore fregato dal commercialista di fiducia, ma un uomo che ha visto andare in frantumi tutta la sua vita, passato, presente e futuro giocati al tavolo della roulette russa, dove, se non si hanno spalle forti, può davvero accadere il peggio.
Le ingenti perdite di denaro, l’indebitamento, le crisi di liquidità sono certamente la causa del problema, ma anche solo la punta dell’iceberg.
Le ripercussioni nella vita privata di imprenditori nella stessa situazione di Giovanni possono essere persino peggiori del problema stesso.
“Sono un padre di famiglia, ho delle responsabilità, tutto quello che desidero è pagare i miei debiti e ricominciare a condurre una vita dignitosa. Non so come abbia potuto cascarci, non avrei mai fatto una cosa del genere se non me l’avesse consigliata e garantita un professionista che consideravo un amico. Ora non so davvero dove sbattere la testa”.
I sensi di colpa si mescolavano al senso di inadeguatezza, per non aver saputo trovare una soluzione efficace e per non essere all’altezza di ciò che aveva ereditato da suo padre.
Provava rabbia verso chi lo aveva fregato, ma soprattutto aveva perso fiducia nella sua capacità di giudizio.
Il suo stile di vita era cambiato, aveva tirato la cinghia per tanto tempo, aveva bruciato la maggior parte del patrimonio personale ereditato ed aveva messo a rischio la metà rimanente.
Era stato costretto a dire “NO” alle richieste dei suoi figli, a far mancare loro quello che invece suo padre non aveva mai fatto mancare a lui.
Il senso di fallimento come uomo era molto più profondo di quello come imprenditore.
Avrebbe tanto voluto sfogare la sua rabbia nei confronti del suo commercialista, ma era stato messo con le spalle al muro anche da lui.
Non contento dell’ottimo lavoro di consulenza aveva presentato una fattura di 30.000 euro a Giovanni.
Fattura, chiaramente non pagata, alla quale il commercialista ha fatto seguire decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo.
Per quella che è la mia esperienza, pochi imprenditori si infilano nei casini da soli e con l’intenzione di compiere azioni poco pulite, come è successo a Giovanni.
Nella maggior parte dei casi, alle spalle, c’è sempre la mano, o la mente, di un consulente che nella migliore delle ipotesi è sprovveduto, scellerato e impreparato.
Professionisti che non hanno le conoscenze necessarie per la gestione finanziaria di una PMI o la ristrutturazione dei debiti aziendali, che si lasciano abbindolare dalle soluzioni facili ed alla moda e le propongono ai loro clienti per incassare la commissione di segnalazione.
Persone che vanno avanti a tentativi, senza seguire una strategia realmente efficace per l’imprenditore.
Casi così articolati, come quello di Giovanni, a volte capitano, ma non così spesso.
Ogni giorno parliamo invece con imprenditori che hanno fatto dei tentativi col supporto dei loro consulenti di fiducia che, nella migliore delle ipotesi, finiscono con un nulla di fatto, nella peggiore provocano danni gravi.
La colpa, chiaramente, non è di Giovanni, come di nessun altro imprenditore che si trova in situazioni del genere.
Non è il loro lavoro occuparsi della gestione dei problemi finanziari dell’azienda.
Mancano loro le informazioni giuste e chi dovrebbe fornirgliele tratta il problema con superficialità e si muove troppo lentamente.
Il problema che tutti gli imprenditori che lavorano con noi mi hanno confessato di aver avuto prima di incontrarci è che qualsiasi alternativa avessero scelto, si sono ritrovati completamente soli oppure ad avere a che fare con professionisti o “pseudotali” che non avevano alcuna idea precisa del percorso da seguire e sembravano agire in maniera abbastanza casuale, facendosi trascinare dagli eventi.
Tra l’altro, molti di questi imprenditori avevano firmato la lettera d’incarico professionale senza che nemmeno venisse spiegato loro quello che sarebbe successo, quando e perché.
Oppure, ancora peggio, si sono trovati ad ascoltare professionisti che li hanno sovraccaricati di dettagli e termini tecnici senza fargli capire nulla e senza scendere nel dettaglio del problema.
Per questa ragione ho pubblicato il libro Aziende che si Finanziano da Sole, per rendere accessibili le procedure per una corretta gestione finanziaria delle aziende anche ai non addetti ai lavori.
So bene quanto spesso gli imprenditori siano costretti a barcamenarsi tra consulenti e amministrativi poco chiari, del rischio che corrono a fidarsi di quello sbagliato, mossi dalle migliori intenzioni.
Ne ho visti tanti, troppi ritrovarsi nella stessa situazione di Giovanni o anche peggio, e avere le mani legate semplicemente perché non sapevano come muoversi, chiedendo supporto a chi, invece, ha saputo solo fregarli.
In questo quadro così ostile anche all’imprenditore più ferrato, non potevo rimanere a guardare.
Il mio impegno quotidiano è quindi quello di rendere accessibile anche ai non addetti ai lavori gli aspetti più rilevanti di una sana gestione finanziaria della propria impresa.
Il libro Aziende che si Finanziano da Sole è stato scritto proprio per questo.

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