
Sono Giuseppe Di Domenico e mi occupo di salvare aziende in crisi da molti anni, ma mi vergogno ad ammetterlo, non da sempre.
Quando nasci in un paesino del Sud Italia ed il tuo timore la mattina non è la professoressa Messinese che interroga, ma non finire per sbaglio in una di quelle risse mortali che incroci tutte le mattine andando a scuola, ecco, quando questa è la tua vita, non pensi a ciò che di buono puoi fare.
A quello ci pensano i ricchi, quelli che avendo tutto, possono pensare ad altro.
Ma chi, come me, ha vissuto col terrore di rimanere incastrato per sempre in quella cittadina davvero troppo piccola e pericolosa, ecco, quel tipo di persone vogliono solo sopravvivere, non riescono a pensare ad altro.
Non ero come gli altri bambini del quartiere, per me le cose erano un po’ diverse, perché a 6 anni avevo perso mio padre. Il giorno prima il rumore della porta che si accostava la sera mi annunciava il suo ritorno, il giorno dopo lui non c’era più.
Capisci che quando a 6 anni sei già “l’uomo di casa” le responsabilità sulla tua schiena sono davvero tante e con gli anni si moltiplicano.
Che mamma sorrida è compito tuo, che tuo fratello non faccia lo scemo con quei ragazzini poco raccomandabili spetta a te.
Ma c’è un lato positivo, quando un dramma del genere ti sconvolge l’esistenza e tu riesci ad andare avanti.
A quel punto ti rendi conto che uscirne vivo non è ‘sta grande impresa; può essere il desiderio di chi non sa come si fa a cavarsela sempre e comunque, ma non il tuo.
Quindi il tuo obiettivo si alza e tu inizi a volerne uscire vittorioso.
Non vuoi sopravvivere, vuoi vincere, con un grande successo stampato in fronte e gli occhi di tutti puntati addosso, quando torni nel tuo paesino per vedere tua mamma felice di nuovo.
Quello volevo, nient’altro e, se per farle tornare il sorriso, era necessario combattere contro tutto e tutti, beh l’avrei fatto.
Sì, lo so, desideri del genere ti fanno perdere di vista chi sei davvero, ma per fortuna il caso ci riporta alle origini il più delle volte.
I miei compagni di scuola volevano diventare piloti, calciatori, astronauti… io avevo capito una cosa semplice-semplice: per diventare ricco devi andare dove stanno i soldi.
Quindi mentre tutti gli altri sfogliavano giornaletti con motori e parlavano di quanto era stato bravo Ronaldo nella sua ultima partita, ecco io leggevo riviste di finanza.
Ero un ragazzino particolare come avrai capito, ma non abbastanza da divertirmi facendolo, eppure lo facevo lo stesso.
Perché non passavo le giornate a non fare cose divertenti come tutti gli altri?
Perché avevo un obiettivo e per raggiungerlo avrei tolto spazio a qualsiasi altra cosa.
Tornando a noi.
Avevo 16 anni e cercavo un modo per entrare in quel mondo e l’unico strumento che stava nelle mie mani erano le riviste di finanza che Ciro, l’edicolante sotto casa mia, mi passava sottobanco a patto che gliele riportassi in perfette condizioni.
Soprattutto d’estate divoravo pagine e pagine come se non ci fosse un domani.
Chi se ne frega di fare il bagno e chi se ne frega frega di tutto il resto, io volevo solo trovare la mia strada per andarmene da lì e mi capitò tra le mani, piovuta dal cielo.
C’era un articolo che elencava tutti i manager più importanti d’Italia usciti dalla Bocconi, approfondendo nel dettaglio le cariche, i ruoli e stipendio degli ultimi anni.
Erano cifre da capogiro. Me ne sarei potuto andare, mia mamma sarebbe stata orgogliosa di me.
E a quel punto capii quale sarebbe stata l’ancora a cui mi sarei attaccato con tutte le mi forze per uscire di lì:
Un’università di prestigio, nella capitale della finanza italiana. Era fatta.
Mamma però non era molto d’accordo. Da quando mio padre era morto io ero diventato il suo punto di riferimento. Accettare che me ne andassi così? Non era pronta.
C’era anche un secondo problema da non trascurare: le università private costano e una famiglia con un solo reddito avrebbe fatto davvero FATICA.
Ma penso tu abbia capito che tipo ero:
io volevo andare in Bocconi, a Milano, e nessuno poteva fermarmi.
Quindi iniziai a TRATTARE. Forse è stato facendolo con mia madre che ho imparato l’arte sulla quale si basa la mia vita lavorativa.
Ne ho affrontate altre vitali, ma penso quella sia stata la più importante per la mia vita lavorativa e in un certo senso anche la più difficile: non la stavo convincendo a farmi uno sconto su un pagamento, ma a separarsi da me, dopo aver perso l’uomo della sua vita.
Taglio corto, perché vivere i mesi di infinite discussioni che abbiamo avuto non lo auguro a nessuno, quindi non starò qui a raccontarteli, passo direttamente al risultato:
- avrei lavorato per le 3 estati seguenti come magazziniere per una zia della famiglia;
- tutto il guadagno sarebbe andato a mia madre che lo avrebbe usato per l’università;
- non potevo sgarrare di un mese con i tempi di laurea, lei non avrebbe pagato una rata in più.
Le condizioni erano moooolto più numerose e più prolisse (un vero e proprio accordo fra le parti!), ma queste sono le più importanti.
Studiare alla Bocconi, imparare a vivere da solo a 18 anni e a confrontarmi con ragazzi che erano stati decisamente più fortunati di me, non è stato semplice.
La maggior parte dei miei compagni di corso era arrivata lì con più risorse rispetto a me e quando finivano le lezioni si destreggiava fra aperitivi, cene e chi più ne ha più ne metta.
Io andavo a casa, studiavo per preparare gli esami con l’incubo del fuoricorso ad accompagnarmi sempre e nel weekend, senza farmi vedere dai miei compagni di stanza per vergogna, sgattaiolavo fuori dalla porta e andavo ad aiutare un fiorista in piazza, che fosse febbraio o luglio, che ci fossero 20 o -20 gradi.
Io non avevo niente rispetto a loro, eppure avevo tutto.
Avevo pochi soldi in tasca e poco tempo per raggiungere il traguardo della laurea ma una fame di successo, di rivincita e di riscatto, che mi hanno permesso di arrivare là dove molti di loro non possono neanche permettersi di sognare.
Il percorso che avevo scelto era quello che l’università aveva studiato per chi voleva intraprendere una carriera nel mondo della consulenza e del management delle grandi aziende.
Quello era il sogno allora: macchinoni, camicie firmate e cravatte di lusso.
Se ci penso adesso quel borioso ragazzino pieno di sé mi fa ancora un po’ ridere.
Una delle cose più interessanti dei percorsi universitari della Bocconi è la vicinanza con il mondo delle aziende. Quanto meno di quelle grandi o grandissime, gestite dai manager e dai consigli di amministrazione.
Molto spesso i manager delle società più importanti d’Italia venivano a tenere lezioni tematiche, portando in aula l’esperienza sul campo. Quelle sedute erano molto differenti da quelle tenute dai professori universitari:
Molta pratica, tanti esempi reali, poca teoria applicata ai casi concreti.
Fu una di quelle lezioni che ispirò quella che sarebbe diventata la mia strada.
Venne a tenerne una di finanza aziendale il socio anziano di una società di consulenza internazionale specializzata nel risanamento delle aziende in crisi e nella ristrutturazione delle esposizioni debitorie delle grandi aziende.
Fu un’esperienza illuminante per me.
Spiegò in aula che il suo lavoro consisteva nel pianificare operazioni straordinarie di riorganizzazione di grosse aziende in difficoltà economica.
La sua società partiva da un’analisi della situazione esistente e forniva indicazioni ai consigli di amministrazione sulle azioni da fare.
I numeri di bilancio venivano passati al microscopio e da quelli partivano interventi d’emergenza per il salvataggio dell’azienda che interessavano i rapporti con le banche, la gestione del personale, le relazioni commerciali con i fornitori e le politiche fiscali.
(se ci penso, il Metodo Di Domenico Debiti™ parte proprio da qui)
Finalmente riuscivo a vedere il collegamento con il mondo reale. Il legame tra le teorie di finanza aziendale e le azioni concrete per guidare un’azienda DAVVERO, non sulle pagine di un libro.
Mi era chiaro:
Volevo assolutamente fare quel lavoro.
Era quella la mia strada e dopo la presentazione andai a conoscerlo personalmente per chiedergli come potevo restare in contatto con lui.
Conservo ancora il biglietto da visita nel portafoglio, il suo nome per me è sinonimo di tutto quello che ho costruito in seguito.
Finalmente avevo trovato la strada per la mia specializzazione.
Il mio percorso di laurea da quel momento in poi fu tutto rivolto in quella direzione. Tutti gli esami (quelli che potevo scegliere almeno), tutte le conferenze fuori orario di università, persino le mie letture personali erano orientate in quella direzione.
Anche la mia tesi di laurea trattò quell’argomento e io non desideravo nient’altro che gettarmi in quel mondo e avere il mio maledetto riscatto.
Il mio primo lavoro fu proprio in quel settore che agognavo così tanto.
La società di consulenza per la quale iniziai a lavorare, aveva una divisione specializzata nella ristrutturazione dei debiti delle grandi aziende, quelle che nonostante le centinaia di milioni di euro di debiti continuano a sopravvivere tranquillamente e a distribuire gli utili ai loro proprietari.
Sì lo so che è un modo complicatissimo per dire una cosa molto semplice, ma mi hanno inculcato nel cervello una marea di idiozie sulla forma. Mi sono liberato di quasi tutto, ma il linguaggio formale ogni tanto sgambetta per uscire.
Detto in poche parole ci occupavamo di ottenere sconti sui debiti o accordi di pagamento differenti da quelli pattuiti dai contratti originali.
All’epoca ero innamorato di quel mondo. Lo ero davvero. Mi sembrava di avere in mano il mio futuro e di aver raggiunto quell’obiettivo che a 16 anni in spiaggia mi teneva incollato al Sole 24 ore.
Cercavo in qualsiasi modo di omologarmi a quelle persone considerate “il top” nel mio ambiente.
Manager praticamente senza età, incravattati 7 giorni su 7, 24 ore su 24 (in effetti ho più volte avuto il sospetto che andassero perfino a dormire con i loro vestiti costosi e le loro cravatte di lusso).
Li guardavo e pensavo “ecco, questo è il futuro di questo Paese, qui ci sono le menti brillanti che aiutano l’Italia a svilupparsi e gli imprenditori a salvare le proprie aziende”.
Non puoi capire che ammirazione provassi nei loro confronti. Loro ce l’avevano fatta, avevano sudato e ora avevano quello che davvero meritavano.
All’epoca non sapevo come funzionavano le cose. Non sapevo che tutti quei manager incravattati avevano a cuore solo la loro carriera e non le aziende per cui avrebbero lavorato.
Non sapevo che i progetti di ristrutturazione erano un modo per mettersi in mostra nei consigli di amministrazione, favorire una determinata corrente di pensiero ed ottenere come riconoscimento una poltrona da dirigente.
Ma come biasimarli? Io stesso ero parte di quel gregge. Erano riusciti a convincere anche me, prima ancora che diventassi parte di loro, prima ancora di iniziare l’università, quando ancora ero un ragazzino che sceglieva fra il suo futuro e due chiacchere sulla partita del Napoli.
Così, forte della mia posizione di “laureato alla Bocconi”, mi crogiolavo nei miei stessi pensieri, sognandomi alla direzione di una mega azienda. Alla direzione però, mica sognavo di aprirla io una mega azienda.
Perché è così che quelli là ti abituano a pensare. Ti insegnano a farti assumere dagli imprenditori, che quasi sempre sono dipinti come cinghiali ignoranti e senza cervello – che hanno semplicemente avuto la fortuna di ereditare o fondare una azienda negli anni d’oro – e ti dicono anche che tu hai studiato per risanare le aziende di cui sono proprietari.
Risanare? Ma risanare cosa? La maggior parte dei laureati in finanza sono dei fuffacazzari senza eguali. Perfino io ero un fuffacazzaro, fino a quando non me ne sono reso conto e ho scelto di abbandonare quelle vesti.
Quando ho capito come giravano davvero le cose, cioè un paio di anni dopo, sono scappato a gambe levate da quell’ambiente che tanto mi aveva affascinato solo poco tempo prima.
Devo ammettere che non è stato merito mio se ho capito e me ne sono andato, se ho capito come stavano le cose, se ho spalancato davvero gli occhi.
Al terzo anno della mia carriera nelle società di consulenza ormai mi ero completamente omologato allo stile di quel mondo. Scarpe Campanile ai piedi, camicie con le mie iniziali sopra e un linguaggio forbito, pieno di parole incomprensibili (c’erano più figure retoriche in un mio discorso che in tutto I Promessi Sposi).
Le prime due abitudini non sono riuscito più ad abbandonarle nonostante gli sforzi, sulla semplificazione del linguaggio scritto e parlato ci sto lavorando.
Quell’anno ricordo che successero molte cose, ma una in particolare cambiò il mio modo di vedere l’azienda PER SEMPRE.
Ora voglio premetterti una cosa, è davvero raro che io ringrazi qualcuno, perché tutto quello che ho l’ho guadagnato da solo e non ho proprio niente da ringraziare, ma c’è un uomo al quale devo il lavoro che faccio oggi e lui, ecco lui è l’unico che ringrazio con tutto il cuore.
L’ho conosciuto in un bar e penso sia stato qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di davvero cazzuto, che mi aveva fatto capire che era come me, un treno verso i suoi obiettivi.
Eravamo diventati molto amici. Valeriano in quel periodo aveva una società di servizi con diversi uffici e una trentina di dipendenti.
Per anni aveva avuto la possibilità di prendere in prestito tutto il denaro di cui aveva avuto bisogno. Prestiti chirografari, mutui ipotecari, anticipi fatture e affidamenti. L’accesso al credito sembrava senza limiti e lui come molti suoi colleghi imprenditori ne aveva fatto largo uso per finanziare la sua azienda.
Ma poi tutto questo è cambiato.
Il 2008 ce lo ricordiamo tutti, non penso ci sia bisogno di dire qualcosa a riguardo. Ce li ricordiamo tutti gli scatoloni, i pianti in televisione, ci ricordiamo le famiglie senza un tetto e la disperazione di chi aveva sempre avuto un lavoro.
Quello che non ci ricordiamo, perché non l’abbiamo mai davvero saputo fino in fondo è questo.
Le banche italiane, terrorizzate da quello che succedeva in America, senza dire nulla, quatte-quatte, iniziarono a ridurre la quantità di denaro prestata ai piccoli imprenditori ed a revocare le linee di credito concesse in precedenza.
Ritirare una linea di credito può essere una misura precauzionale per la banca, ma è la fine per un imprenditore abituato a sfruttare ogni singolo centesimo del credito ottenuto dal sistema bancario.
Questo è esattamente quello che è successo a Valeriano, il mio amico conosciuto al bar.
Nella sua azienda si concentrarono una serie di “sfighe”, che avrebbero abbattuto anche l’imprenditore con le spalle più forti e che gli causarono seri problemi di indebitamento.
Lui era uno davvero tosto, ma non aveva tutta questa conoscenza del sistema bancario. I servizi che vendeva ai suoi clienti erano ottimi, i migliori credo, ma lui si era sempre affidato al suo commercialista ed ai suoi fidati amici bancari.
Questo, beh, lo stava rovinando.
I ricavi non bastavano a coprire i costi, aveva problemi nell’incassare le fatture emesse, aveva perso dei clienti importanti chiusi per fallimento, fatto degli investimenti sbagliati e utilizzato la poca disponibilità sui conti per liquidare un dipendente licenziato.
La continuità aziendale era seriamente in pericolo e c’era il rischio che perdesse tutto quello per cui aveva lavorato.
Riesci ad immaginare? Una vita intera, le fatiche, i sacrifici, le recite delle figlie a cui non era potuto andare per lavorare su qualche progetto, tutto quello che aveva fatto stava diventando inutile perché una banca aveva deciso che per proteggere i suoi interessi da ipotetici problemi futuri si potevano tranquillamente calpestare quelli di chi aveva sempre pagato puntuale.
Io non ne ero al corrente, ma lui non era il solo imprenditore ad affrontare questa situazione. Pensavo fosse un caso isolato, uno a cui le cose erano andate male, che se l’era giocata ed aveva perso la partita, ma la realtà è che questa tragedia stava colpendo una fetta sempre maggiore di imprenditori.
La maggior parte delle aziende aveva subito le conseguenze di questo improvviso cambiamento di rotta del sistema bancario e ognuno aveva cercato di rimediare utilizzando le armi che aveva a disposizione.
Per le grandi azienda, le multinazionali, non c’era davvero problema.
Alla fine loro potevano da sempre sfruttare le migliori competenze di gruppi di professionisti specializzati, in grado di sopportare il management, impreparato ad affrontare una situazione di difficoltà economica, nella contrattazione di accordi con le banche e i fornitori per rendere sostenibile il peso dell’indebitamento.
Insomma avevano dalla loro parte degli squali mica da ridere a sistemargli i conti.
Ma chi, come Valeriano, era un piccolo o medio imprenditore, per il quale quelle risorse erano inarrivabili, poteva anche pregare tutti i santi.
Nessuno lo avrebbe aiutato.
Team di consulenti, pronti a farsi in 4 per trovare accordi con le banche per salvare i beni aziendali, con il supporto di legali e commercialisti e chi più ne ha più ne metta, insomma veri e propri squadroni ben organizzati per raggiungere l’obiettivo non si sarebbero MAI e poi MAI messi dalla parte di un pesce così piccolo.
Questo genere di agevolazioni non erano, e per molti versi non lo sono ancora, alla portata delle aziende medio-piccole come quella di Valeriano, perché costano troppo per il fatturato che muoveva un’azienda come quella del mio amico.
Valeriano non mi parlò subito dei suoi problemi, ma un giorno chiacchierando di lavoro gli raccontai di un caso del quale mi stavo occupando e vidi subito uno sguardo strano nei suoi occhi.
Alla fine dopo mezz’ora in cui da presuntuoso egoista qual ero mi vantavo di come stessi gestendo il caso a meraviglia, lui aprì bocca imbarazzato.
Finché un giorno a cuore aperto mi disse chiaramente come stavano le cose:
“Giuseppe senti non te ne ho mai parlato perché insomma, mi vergognavo, ma la mia azienda ha qualche debito… cioè sto aspettando risposte dal mio commercialista in realtà e… pare che la banca stia vagliando la mia situazione economica ora e dovrebbe arrivare un prestito…”
Questi puntini che tu leggi erano pause di imbarazzo, di tristezza di un uomo adulto che chiede a un ragazzino qualche dritta.
Ma quello che si doveva vergognare ero io.
L’ho capito in un istante. È stato come quando sono cresciuto da una mattina all’altra. Come quando la morte di mio padre mi ha costretto a diventare un adulto.
In un solo momento mi sono reso conto che a nessuno dei miei colleghi fregava niente dei loro clienti e ogni successo lavorativo era solo un modo per mettersi in mostra con la direzione dell’azienda e che io non ero meglio di loro: era così anche per me.
Ma non era troppo tardi, non ero un uomo di 80 anni che si rendeva conto di aver sprecato la sua vita. Avevo preso un percorso sbagliato, ma che mi aveva dato talmente tante conoscenze che forse ne era valsa la pena.
La situazione di Valeriano era piuttosto tragica, ma come avrai capito, io non mi fermo finché non ottengo quello che voglio e quello che volevo era salvare l’azienda di chi, seppur inconsciamente, mi stava cambiando la vita.
Volevo che potesse tornare a casa e guardare sua moglie serenamente, perché tutto era stato risolto.
Volevo non dovesse più evitare gli sguardi interrogativi e preoccupati dei suoi dipendenti.
Volevo chela sua azienda arrivasse dove meritava.
Non mi sembra poi molto come favore a chi ti ha evitato di sprecare la tua vita.
Lui si fidava ciecamente di me e non disse mai niente delle operazioni che portavo avanti, tranne il giorno in cui arrivai in ufficio dicendogli senza giri di parole (mi spiace ma non era il momento di fare il sensibile) che il progetto a cui teneva tanto, quella parte a lui così cara della sua azienda andava interrotto, smembrato, eliminato per poter sopravvivere.
Quella conversazione fu davvero difficile per me, era così semplice: per il bene dell’albero un ramo andava potato o avrebbe infettato tutto e non ci sarebbe stato più niente da salvare.
La mia logica si andava a scontrare con il suo sentimentalismo, ma alla fine conti alla mano ottenni il permesso di fare quell’operazione: i numeri non mentono MAI.
Ovviamente avevo il mio lavoro nel mio ufficio con poltrona di ultima generazione e bonsai proveniente dall’Indonesia, per cui il lavoro per Valeriano lo facevo di notte.
Fino alle 4 del mattino studiavo i casi che affrontavo di giorno.
Avevo la casa invasa da libri di testo e faldoni pieni di ricerche, che mi servivano per capire come applicare ad una piccola-media impresa gli stessi principi che utilizzavo per gestire la finanza di una grande azienda.
Perché non chiedevo aiuto a qualcuno di più esperto?
Lo avevo fatto, ma la risposta non aveva lasciato molto spazio a collaborazioni: “Ma sì, cosa vuoi fare?!? Digli di dichiarare bancarotta r basta”.
Ma con i numeri in mano mi lì resi conto che le aziende in crisi possono essere salvate… ma per importi così piccoli nessuno s’interessa.
Aiutare Valeriano mi cambiò la vita DAVVERO, so che te l’ho ripetuto già mille mila volta, ma quel piccolo imprenditore in crisi mi ha portato a fare quello che faccio e non potrò MAI dimenticarlo.
Invece delle presentazioni davanti ai consigli di amministrazione mi ritrovavo a parlare con gli avvocati dei creditori, i fornitori ed i direttori di banca. Non c’erano più power point in un elegante sala riunioni, ma mani strette, incontri, trattative VERE.
Il linguaggio era più semplice, pratico e i problemi da risolvere molto più terreni.
Non si parlava di massimizzare il ROI, di migliorare il free cash flow e di misurare il net present value ma di piani di rientro, garanzie cambiarie e pignoramenti. I risultati di quello che facevo li vedevo ogni giorno, nell’espressione di Valeriano che si distendeva sempre più.
Li ho visti nella foto dei suoi figli laureati, che ci ha tenuto a mandarmi qualche anno dopo, nella sua casetta al mare comprata con i risparmi che era riuscito a mettere da parte, nell’assunzione di 4 nuovi dipendenti negli anni successivi.
Niente nella mega società di consulenza in cui lavoravo mi aveva mai reso tanto soddisfatto.
Ma l’appagamento durò poco, dovevo e potevo fare molto di più. Un caso non poteva essere tutto, chissà quanti altri Valeriano avevano bisogno di me.
Devo ammetterlo, quel risultato, che all’epoca mi sembrava incredibile, fu in realtà appena sufficiente se lo metto a confronto con quelli che riesco ad ottenere oggi per i miei clienti.
Ma bastò a farmi capire che era arrivato il momento di dare una svolta alla mia carriera.
Prima di aprire una società per conto mio, decisi di andare a lavorare in uno studio professionale, specializzato nelle procedure fallimentari.
Eravamo commercialisti ma, a parte pochi selezionati clienti, lavoravamo principalmente su incarico del tribunale.
Iniziai lì perché ero convinto che fosse quello l’unico modo per occuparmi della ristrutturazione delle piccole e medie aziende in crisi.
Seguivamo moltissime procedure concorsuali. Fallimenti, concordati preventivi, accordi di ristrutturazione dei debiti… Tutto il campionario della normativa fallimentare.
Lo facevamo però solo come esperti del tribunale. Mai come consulenti delle aziende in difficoltà.
Ero di nuovo dalla parte sbagliata della barricata senza nemmeno essermene accorto.
Ho seguito le procedure, analizzato la documentazione, affrontato i creditori e intervistato gli imprenditori, secondo quanto previsto dalla prassi fallimentare.
Il mio compito era quello di individuare gli errori e le falle nascoste nella documentazione presentata in tribunale dall’imprenditore in crisi e dal suo professionista.
Lavoravo per i creditori, non per l’imprenditore in crisi.
I professionisti incaricati di curare un fallimento o un’altra delle procedure fallimentari non lavorano mai da soli.
Oltre alla supervisione del giudice, si avvalgono dell’esperienza e della professionalità di avvocati, notai, commercialisti, periti, sindacalisti ai quali vengono assegnati dei compiti specifici su incarico del tribunale.
In questo modo ho conosciuto e ho avuto modo di lavorare con molti di quelli che sarebbero diventati, alcuni anni dopo, i partner del mio network professionale.
Professionisti esperti nel loro campo che conoscono le logiche delle procedure fallimentari.
Ma l’esperienza nello studio non fu utile solo per questo.
In quegli anni ho avuto modo di conoscere a fondo la normativa, ampliare la mia conoscenza del diritto fallimentare e del codice civile, capire come pensano e agiscono dall’altra parte, a posteriori è stata la cosa migliore che mi sia mai successa.
Ho interiorizzato le logiche che stanno dietro la gestione di un’azienda in condizione di crisi conclamata e imparato ad utilizzare molti degli strumenti che fanno parte della mia cassetta degli attrezzi professionale.
In quegli anni ho imparato ad usare tutte le armi che ora sfodero davanti a creditori accaniti che pensano di parlare con uno sprovveduto qualsiasi.
É stato durante quelle giornate di lavoro interminabili che ho costruito le fondamenta di quella che sarebbe diventata la filosofia di base del Metodo di lavoro che oggi utilizzo per la gestione dei casi dei miei clienti.
Ed è stato grazie allo studio dei casi degli imprenditori falliti che ho sviluppato quella particolare sensibilità ad individuare le aree critiche della gestione aziendale ed a concentrarmi sulla riduzione del rischio a carico degli imprenditori nel caso in cui si manifesti lo scenario peggiore tra quelli possibili.
Mi resi anche conto che le piccole aziende sono circondate da una marea di professionisti differenti, che a modo loro offrono assistenza agli imprenditori.
Avvocati, commercialisti, notai, consulenti del lavoro ruotano intorno alle aziende dalla loro nascita fino al momento in cui le cose iniziano a girare male.
Una domanda in particolare mi spinse a fare alcune considerazioni, e successivamente a mollare La Professione:
“Ma se ci sono così tanti professionisti intorno agli imprenditori, perché le aziende falliscono?”
La risposta arrivò durante una fredda mattina di Gennaio, quando conobbi Alessandro Rossi, un imprenditore di 68 anni che stava per cadere in miseria a causa dei debiti.
Lui è la seconda persona che devo ringraziare per l’uomo che sono oggi.
Il titolare dello studio mi aveva chiesto di partecipare a quella riunione la sera prima. Dovevamo incontrare uno dei clienti più importanti dello studio e voleva che io partecipassi.
Vicenza a Gennaio è fredda per davvero, erano le 7 e 30 e io ero appena arrivato in ufficio, lui era già lì.
Non ricordo come fossi vestito, cosa mangiai a colazione e non ricordo quasi nemmeno la faccia del signor Rossi, ma c’è una cosa di quella gelida mattina vicentina che non dimenticherò mai: gli occhi di un uomo che vede in me il suo unico salvatore.
Alessandro era un omone, ma ti giuro che con quello sguardo disperato con un misto di rassegnazione e speranza avrebbe fatto breccia nel cuore di chiunque.
Era seduto nella piccola sala d’attesa posizionata di fronte alla sala riunioni, con un abito di un grigio chiaro palesemente smesso, di quelli che compri al discount con due lire.
Aveva la barba di qualche giorno e un paio di occhiaie davvero notevoli.
L’abbigliamento e l’aspetto trasandato di Alessandro Rossi stridevano con l’ambiente circostante e il tono disperato della sua voce non era d’aiuto.
“Ho perso tutto. Tutto.”
Non riusciva nemmeno a dire qualcosa di sensato, utile, per quella frase era esplicativa di qualsiasi cosa.
Dentro quelle 3 parole c’era una moglie malata alla quale non scaricare addosso altre preoccupazioni, 2 figli pieni di sogni su esperienze all’estero, viaggi e mille altre cose da fare, c’erano i suoi dipendenti che stavano a loro insaputa perdendo ogni cosa e le loro famiglie in una catena di disperazione che non riesco nemmeno a raccontarti.
Così ebbe inizio la riunione di quella mattina, e io, freddo, cinico e immobile, in poche pungenti parole mi sciolsi, visibilmente colpito dalla storia dell’uomo che avevo di fronte.
Alessandro Rossi era il padrone di una delle catene di negozi di lusso più importanti della città. Era un amico del titolare dello studio e uno dei pochissimi clienti per i quali svolgevamo le attività tradizionali di uno studio commerciale, la tenuta della contabilità e delle dichiarazioni fiscali.
Questo anziano signore nei venti anni precedenti, aveva creato un piccolo impero commerciale nella provincia. Ma quel giorno non era grintoso come al solito. Era arrabbiato, deluso, triste e amareggiato per quello che stava succedendo.
La sua azienda aveva subito un calo del fatturato enorme e nei 20 mesi precedenti aveva accumulato moltissime perdite. Il patrimonio della società era sotto i livelli minimi ed era necessario intervenire per evitare la dichiarazione di fallimento.
Avevano girato come una trottola tra le banche della provincia, alla ricerca di un direttore di filiale compassionevole che fosse disponibile ad erogare i finanziamenti necessari a permettere all’azienda di continuare a lavorare.
Il tutto in gran segreto, per evitare che la notizia si diffondesse. Perché quando hai un debito, sei bollato per sempre come “incapace” senza tener conto di varie ed eventuali circostanze sfavorevoli.
Il mio titolare aveva partecipato a molti di questi incontri. La presenza del professionista, dava più credibilità alle richieste. O almeno questo era quello che avevano sperato.
Lo studio aveva lavorato per mantenere aggiornata la situazione contabile, sistemare le formalità e preparare il Business Plan richiesto dalle banche.
Ma nulla di ciò che era stato fatto, sembrava aver funzionato.
L’incontro di quella mattina prese una piega strana. L’imprenditore seduto da un lato del tavolo, il suo professionista di fiducia e amico di sempre dall’altro. Discutevano della chiusura dei punti vendita e dell’obbligo di portare i libri in tribunale.
Stavamo analizzando le conseguenze per la famiglia, che aveva rilasciato fideiussioni a molte delle banche finanziatrici. C’era rabbia e delusione nelle parole del signor Rossi.
Praticamente accusava il titolare del mio studio di non aver fatto abbastanza per salvare l’azienda e di essere responsabile del disastro.
Non era così, era stato fatto il possibile. O almeno quello che all’epoca pensavo fosse il possibile. Ma non era bastato.
Le logiche bancarie erano cambiate, il sistema si era irrigidito e le condizioni per ottenere linee di credito erano diventate più stringenti.
Nonostante un quadro normativo favorevole all’erogazione di finanziamenti per le imprese in difficoltà, nei fatti le banche non aiutavano un’azienda in crisi a rimettersi in carreggiata (e oggi la situazione non è cambiata).
Dal punto di vista aziendale, i numeri parlavano chiaro. Bisognava portare i libri in tribunale.
L’unica cosa che il titolare del mio studio si era rifiutato di fare era legata a questo aspetto. Truccare i numeri non rientrava nella sua filosofia professionale.
L’incontro di quella mattina si concluse con una porta sbattuta, un cliente perso e più di 35 mila euro di parcelle insolute che non sarebbero mai state pagate.
Dopo poche settimane il cliente lasciò lo studio e si affidò alle cure di un professionista più “flessibile” nel nascondere tra le pieghe dei numeri di bilancio le difficoltà dell’azienda e questo gli ha permesso di tirare avanti un altro anno prima di ricevere l’istanza di fallimento e l’accusa di bancarotta.
Un’accusa della quale non si sarebbe mai liberato, marchiato a vita come fallito, incapace e pure truffatore.
Ma davvero non c’era niente che poteva essere fatto?
Questa domanda mi ha tormentato per moltissimo tempo. Non si fallisce dall’oggi al domani, com’è possibile che non sia stata trovata una strada prima.
Sono certo che il mio capo tenesse a quel cliente. So che si era impegnato.
Il problema quindi non era morale, era una questione di competenze. Nessuno aveva quello che serviva a fermare il declino di un’azienda.
Era incredibile, non potevo nemmeno crederci, che il mondo fosse pieno di egoisti egocentrici che stavano solo dove andavano i soldi ma ero disposto ad accettarlo. Lo sapevo insomma.
Ma che non ci fosse un cane, anche con le migliori intenzioni, in grado di fermare la distruzione di un’azienda, quello era inconcepibile.
La verità mi si schiaffò in faccia in un secondo.
Il sistema è così abituato a lasciar indietro chi non ce la fa, che anche con le migliori intenzioni del mondo non ci sono gli strumenti per ridare in mano la vita a chi ha commesso degli errori.
Non so esattamente come sia andata, ma qualche tempo dopo sono passato davanti a uno dei negozi del signor Rossi e l’ho trovato vuoto, con un orribile cartello fuori nel quale leggevo il fallimento intero di un sistema che non difende chi dovrebbe.
Quella serranda giù mi diede la forza di fare ciò che era ormai tempo di fare.
La mattina dopo diedi le dimissioni, promettendo a me stesso che nessuno sarebbe mai più finito nelle mani di gente senza scrupoli o di incompetenti con le migliori qualità morali del mondo.
Lavorare dopo la nomina del tribunale non mi avrebbe permesso di aiutare gli imprenditori nel momento peggiore della loro carriera. Non mi permetteva di intervenire per tempo per arginare gli effetti della crisi.
Questo è il motivo per il quale ho deciso di lasciare la professione e dedicarmi a sviluppare un metodo di lavoro che mi permettesse di aiutare VERAMENTE i piccoli imprenditori e a scongiurare la necessità di portare i libri in tribunale, venendo marchiati a fuoco per sempre.
Un metodo costruito grazie all’aver lavorato nelle fila nemiche a lungo.
Un metodo creato perché non ci sia più un Alessandro Rossi o un Valeriano nel tessuto imprenditoriale italiano.
Negli anni questo metodo è stato perfezionato, grazie all’applicazione pratica su migliaia di casi reali e alla condivisione delle conoscenze accumulate con un network di professionisti in grado di supportare alcuni aspetti dei piani di ristrutturazione delle aziende dei miei clienti.
Ora lo applico costantemente, con le dovute variazioni da caso a caso, con un bagaglio di oltre 10 anni alle spalle.
Ma tutto è iniziato da qui, dal sorriso di Valeriano e l’espressione disperata di Alessandro.
Tutti quei numeri, quelle trattative sono in realtà fatte di persone che per rabbia o per soddisfazione mi hanno spinto a lasciare la sicurezza di lavori strapagati per fare DAVVERO quello che ho sempre voluto: salvare e dare valore ad aziende che sono la linfa vitale di questo paese.
Se vuoi saperne di più sul mio metodo di lavoro clicca sul pulsante sotto e scopri il Metodo Di Domenico Debiti™.